TERMINAL STORY

1.Quarantadue ferite davanti allo specchio.

-Signorì, è possibile ‘na bottiglietta d’ acqua?
Chi si
-Lissia o gazata?
Ho lasciato da due anni la mia famiglia a Kladno, vicino Praga, per partire alla volta dell’ Italia. Non ero mossa da disperazione o povertà. Partii perché volevo assaggiare questo paese dal quale sin da piccola mi sentivo così attratta ed incuriosita. Per dodici ore al giorno vivo nel chiosco del piazzale dei pullman di Pescara, il Terminal. La mia libertà si esercita negli ottanta centimetri di distanza tra il bancone di plastica rossa davanti a me e la parete dietro, con il fornetto per i panini e le mensole con le bottigliette di succo di mela a temperatura ambiente. Questo bancone rappresenta, al contempo, il limite della libertà dei drappelli di clienti. Affamati, assetati, frettolosi, infuriati, oppure dei soavi perdigiorno d’ ogni razza che colorando le mie giornate. Colori, odori. La posizione del sole e la densità delle nubi colorano di luce diversa la mia pelle e i miei vestiti, ma l’ odore della mostarda e del mortadellone sudato accanto al domopak è immutabile, sempre prepotentemente identico. Lateralmente, invece, potevo spostarmi di ben tre metri, andando dalla piccola cassa fino alla porta bianca che dà sul retro, dove abbiamo un frigorifero Rex No Frost la cui maniglia regala una volta su tre una scossa elettrica che ormai utilizziamo al posto del caffè, e un ripostiglio dove puoi farti strada tra le ragnatele solo menando severi fendenti di machete.
Un granchio.
Si dice così, no?
Metà della mia vita la passo scivolando di lato come un granchio.
Un granchio con cento braccia, mille mani e centomila dita. Stappa la bottiglia, versa il caffe. Il resto presto, il resto! E poi sorridi, stacca lo scontrino, suda, suda e risuda. Chitina, collagene, morse strette, precise. Cento braccia, mille mani e centomila dita per fare tutto, farlo in fretta e farlo bene.
-O ma mi stì sentì? Do’ ciai la testa stasera, stellì ? Ho detto liscia. Una bottiglietta d’ acqua liscia e un bicchiere, grazie.
Gatti, solo gatti. Dipinge e ha dipinto solo quadri con gatti. Sin da quando era ragazzo. Spesso, accanto ai gatti, dipinge le caviglie e i piedi di quella che dovrebbe essere la padrona. Quasi sempre piedi nudi con smalto rosso scuro. Gatti di tutti i tipi, con panorami di notti oppure di luminosi mezzogiorni, di tetre montagne o di spiagge dalla fine sabbia brillante. Gatti inquietanti, gatti a volte troppo grandi per essere gatti, o con sguardi troppo maligni per essere creature di dio, oppure gatti giocosi, pigramente appisolati ai piedi della padrona, o a giocare con la luce e le farfalle. A volte dipinge solo un particolare del gatto: una zampa, un occhio, un orecchio a punta o la schiena che si staglia contro un tramonto sulla spiaggia caraibica, maghrebina o su quella di Mergellina, davanti a Castel dell’ Ovo. Altre volte dipinge solo una coda che guizza in una camera da letto del futuro, lucente d’ acciaio e fredda nelle geometrie.
E la prima volta che Leo prende acqua al posto del suo solito vetrino. Quattro, cinque, sei al giorno. Non tutti da me, a volte mi tradisce per quello del bar affianco a Feltrinelli. Lo vedo anche un po’ spaventato, credo stia tremando, e ha gli occhi spalancati.
-E no stai bene Leo?
-No. Guarda quà e pure quà.
Mi mostra tre chiazze scure, sottili, come delle buie ferite alla base del collo. Anche il dorso della mano destra aveva quella macchia.
-Il fegato – mi spiega – è sicuramente il fegato, troppi caffè. Per qualche giorno solo acqua. Spero non le veda mio figlio, quello è un rompicoglioni come pochi. Sono già le sei e mezza, no? Tra due ore vado a nanna, ciò già un sonno che crepo, rinuncerò al vetrino della buonanotte.
-E Leo ecco l’ acqua. E siedite un pò tranquilo.
Anche la settimana scorsa Leo aveva quelle strane chiazze. Poi gli sono scomparse e ora ce l’ ha di nuovo. Martedì. Era sicuramente un martedì come oggi perché avevo il turno fino a mezzanotte. Boh, sarà allergico ai martedì, che vuoi che ne capisca una povera ragazza-granchio.
Riflettendoci, perché sottovalutarmi?
Non sono un granchio.
Sono la dea Kali.
La Nera. La sposa di Shiva.
Veloce e perfetta, resto immobile al centro. Le mie braccia lunghe fanno tutto. Ferme, forti, veloci. La mia testa dritta, alta, ferma.
Le mie braccia arrivano ovunque.
Sono Kali, dea della morte e della distruzione nel pantheon induista.
Al collo Kali indossa una collana di teschi umani, io il fazzuolo rosso con il logo del Terminal. Le sue quattro braccia sinuose come robuste serpi vengono raffigurate grondanti sangue, le mie gocciolano solo sudore, al massimo un po’ di ketchup.
Il mio autoritario volto di Dea guarda oltre le teste dei miei thug, dei miei clienti umidicci e spettinati, oltre i cappelli da skater, oltre le crape pelate, oltre i dread colorati, oltre i bei capelli rossi rossi come onde d’ incendio di quella ragazza che fa la supplente di biologia e distribuisce sempre volantini di proteste e manifestazioni. Orde di thug, lingue si allungano ad afferrare i sacchetti di patatine dietro di me, bambocci che assaltano frigobox dei gelati, ma io li agguanto a distanza per la collottola grazie ai miei stupefacenti arti mutanti.
Fermo il mio sguardo. Il pullman Carinci delle 18 da Roma marcia dritto verso i miei occhi. Lo guido come fossi un faro verso di me, finchè si ferma dove deve fermarsi, finchè si ferma dove il mio sguardo lo conduce a fermarsi.
Ma quale Dea Kali.
Sono solo un granchio.
Una povera stanca ragazza-granchio.
Per giunta immigrata.
Alla fine mi trovo bene a lavorare quì a Pescara. Imparo l’ italiano, alzo due soldi per l’ affitto, per i cd, per le magliette e il resto lo metto da parte per un nuovo tatuaggio e per andare a novembre a vedere i Rammstein a Berlino.
-Du…du hast mich…
Non vedo l’ ora.
Ci saranno migliaia di persone, mi schiacceranno come un granchio sotto mille anfibi.
Venderò caro il mio guscio tatuato.
Fino ad ora a tatuarmi è stato sempre e solo Pierre, l’ unico ragazzo con cui abbia avuto una storia seria, bella, completa, durata sei anni e mezzo. Un fumettista bretone che viveva nel suo studio di tatuaggi a Praga. Il primo tatuaggio che mi ha fatto è stato un asso di picche parecchio barocco al centro della schiena. L’ ultimo uno spicchio di luna calante, uguale a quella che c’ è ‘sti giorni, attorno alla spalla sinistra. In quel periodo le cose tra noi iniziavano ad andar male. Sapeva che sarei partita ma era anche consapevole che la storia sarebbe finita comunque. Una luna calante.
Pierre aveva grandi occhi scuri, dolci, ma a volte pareva nascondessero una ferocia che mi spaventava. E’ stata l’ unica persona che io abbia mai amato fino a quando, un mese, fa non mi scoprii innamorata del mio giovane padrone di casa, Vittorio. Il solo pescarese che si sia fidato di affittarmi un appartamento.
Appena avvertono il mio accento straniero, mi chiedono da dove vengo e appena gli rispondo che sono di un paese vicino Praga:
-Per carità! Albanesi di merda tornatevene a casa!
Allora ho iniziato a dire che sono di Berlino, o di Londra, ma per lo xenofobo ogni immigrato viene sempre e comunque da Immigronia, terra non meglio precisata che sforna solo ladri, drogati e mignotte.
Vittorio era un cliente del Terminal, ogni tanto veniva con una ragazza tanto simpatica, Alice. Lui diceva sempre che era un’ amica, ma non so. Si bevevano un paio di succhi di frutta alla mela, poi lei tornava al lavoro e lui rimaneva seduto il tempo di un’ altra sigaretta. Alice non l’ ho più vista da un mese. Lavora al centro di estetica della sorella, che aziona lampade abbronzanti, infila piercing e applica maschere di bellezza. Un mestiere quasi banale, visto che a Pescara i centri di estetica sono più numerosi dei panifici.
-Ma dai, perché non me l’ hai detto prima…io ho una stanza da affittare. La casa è al piano rialzato ma è bella luminosa, e poi ha un terrazzo condominiale grandissimo, si vede tutta la città, pure una parte dei colli, poi c’ è il forno a microonde e quel coso per cuocere gli arrosticini. La tua futura coinquilina è una tipa troppo forte, è un po’ come te, ti ci troverai benone. 150 euro al mese tutto compreso. Zona universitaria, da qui colla macchina saranno dieci minuti.
Effettivamente, la casa era carina. Presi la stanza, iniziai a scopare con Vittorio, e alla fine me ne sono innamorata. Mi piace, e poi è come me. Fisicamente siamo quasi identici, siamo alti uguale, poi ha la pelle bianca bianca e tanti nei come me, ha i capelli neri e odia il calcio. Solo che lui ride e sorride sempre e io mai, ma non perché sia triste, ma perché non capisco bene il dialetto e non afferro mai le sue battute.
L’ aria inizia a vibrare del pesante suono delle campane, o meglio di campane.mp3 del cd del sound system della chiesa del Sacro Cuore alla destra del piazzale. I rintocchi cessano subito. Non conosco bene il codice morse delle campane. Non mi sembra ora di messa, i rintocchi erano comunque pochi e mi sembra di ricordare che tre dong annuncino la scomparsa di un uomo.
Ad ogni imbrunire il Terminal viene preso d’ assalto dall’ unica comunità di rumeni al mondo che non beve né acqua né birra né vino ma solo ed esclusivamente quelle dolciastre porcherie dei Bacardi Breezer al gusto lime. Ovviamente, con quei due gradi alcolici e mezzo, per ubriacarsi devono bersene a centinaia, ma almeno alcune sere mi fanno al cortesia di buttare da soli le bottigliette vuote. Cinque rumeni che fischiano quasi tutte le ragazze che passano, anche certe orribili, ma a me non dicono mai nulla.
Non mancherebbero mai di rispetto alla pupilla del professore.
Roman, il professore, è semplicemente un maestro di kaval, una spece di flauto ungherese. Il mio cliente più affezionato. Tutti hanno un grande rispetto per lui. Racimola due soldi suonando quel coso con l’ accompagnamento di una qualche ingenua base incisa su cassetta. Però è bravo, a me piace tanto come suona. E mi piacciono i suoi racconti.
-Sono stato in galera per ben tre volte! Sotto Hitler, sotto Stalin e sotto la vostra democrazia di merda!
Dieci, venti volte al giorno il professore strillacchia questa frase tracannando senza gusto il suo ennesimo Bacardi Breezer. Ora i cinque rumeni e il professore ungherese continuano a giocare a carte al tavolino in plastica bianco e rosso della cocacola. Uno di loro alza la testa per gridare due sconcerie sgrammaticate a Angelica, il trans, che affabilmente continua a sfumacchiarsi la sigaretta e sorseggiare con grazia il suo té freddo, appollaiata sullo sgabello davanti al mio bancone. Aspetta il suo turno di lavoro, senza dar peso a nulla. Grossi polpacci lisci stretti da calze velate. Scarpe Cesare Paciotti laccate di bianco ma col tacco basso, a virgola, da signora benestante di provincia. Gonna cortissima di Prada impreziosita da pajettes dorate e verdi. Maglia aderente Calvin Klein di ciniglia elasticizzata rossa rossa. Un abbondante e tonico seno Studio Deus Chirurgia Estetica in bella mostra. Grossa schiena (di proprietà) muscolarmente compressa nella maglia. Capelli biondi acquistati su E-bay, lunghi e sfrangiati sul viso semi-seppellito. Trucco garbato, rossetto effetto seta di Collistar, abbondante ma non sbavato. Bel sorriso e bei denti in ceramica e brillantino Cartier ancora bianchi nonostante la media di quindici Marlboro rosse limited edition al giorno. Angelica non è di famiglia ricca, né fa affari particolarmente redditizi. E’ semplicemente l’ amante di un assessore, di cui però non vuole farmi il nome, della destra conservatrice. Talmente conservatrice che pare si conservi un gran numero di indumenti intimi femminili usati nell’ armadietto a chiave del suo ufficio. E, a stare con lui, anche Angelica, alla fine, è diventata una conservatrice. Si è conservata quello che lei chiama il filmatino delle sculacciate sul cellulare, con il quale ricatterà volgarmente l’ assessore quando questo si stuferà di mantenerla.
Un gruppetto di ariani in calzoncini corti di jeans con enormi zaini sulla schiena larga entra nell’ Hotel Caracas accanto alla chiesa. Il grosso usciere nigeriano, col glaucoma all’ occhio destro, continua a fissare il cellulare, come se volesse ipnotizzarlo con l’ occhio buono.
Sono le sette, mancano gli ultimi tre ultimi pullman. Il pullman arancione della GTM che riporta i pendolari di Pescara, con le palpebre pesanti, verso il calore delle loro piccole cucine affollate di figli, tegami e ritratti di Padre Pio, nei più reconditi recessi dell’ Abruzzo citeriore.
A condurli a casa sarà sempre Giacomo, l’ autista che ha paura della pioggia ed ama Rita, una donna che passerà altri cinque anni in galera. Ogni giorno le scrive una lettera, quasi ogni giorno ne riceve una da lei. Conta i mesi che mancano, i giorni e le ore, sperando che qualche miracolosa clemenza accorci la sua distanza dalla libertà. Non gli importa che lei sia innocente o meno. I pensieri che le dedica ogni giorno non amano soffermarsi su questo argomento. Aspetta di poterla abbracciare, per la prima volta da quando ha avuto il suo indirizzo dal sito di donne sole in difficoltà. Aspetta solo il giorno di poter sentire il calore del suo corpo, finalmente libero, stringersi al suo. Tra i rombi delle macchine, la gente che ti sgomita di corsa, la puzza di smog e tutto quello che a ognuno di noi fa profondamente ribrezzo ma che per Rita è sinonimo di libertà. Giacomo aspetta quel giorno, pregando la mamma morta, pregando che il loro amore resista fino al giorno della libertà.
Soprattutto, pregando che ne sia valsa la pena.
Parte anche il pullman rosso per San Severo, che il lunedì mattina è stracolmo di colf balcaniche e studentesse che frequentano la facoltà di Lingue Straniere.
Ed ecco il pullman azzurro della Febo Capuani. In partenza l’ ultima corsa per L’ Aquila. La corsa di quest’ ora, durante la settimana lavorativa, è deserta tranne per una giovane e carina ragazza-madre con la sua piccola figlia di circa dieci anni. Una bambina sorridente, nata a Pristina, adottata all’ età di due anni, cieca dalla nascita. Le sue palpebre sono sigillate, gli occhi non si sono mai formati, come è capitato a tante sue coetanee di quelle zone che, come dice la supplente di biologia, hanno avuto la sfortuna di nascere quando le missioni di pace seminavano nei campi, al posto del grano, l’ isotopo 238 dell’ uranio impoverito.
Stamattina da quel pullman è sceso anche un uomo alto e magro, con una coda di capelli grigi che seguiva la ragazza e sua figlia. Ora quell’ uomo sta risalendo sul pullman con la ragazzina, che gli saltella accanto, ma senza la madre. Dinanzi ai gradini, la piccola si gira verso di me e spicca una corsetta. Si ferma a un passo dal bancone e allarga un bel sorriso nella mia direzione, con i suoi piccoli occhi sigillati dalle palpebre puntati verso la mia spalla sinistra.
-Ti ha fatto male quel tatuaggio?
Freddo alla base della nuca. Quella frase mi inietta un istante di angoscia nera. Come ha potuto vedermi la luna? Oggi porto pure le maniche lunghe, anche uno con gli occhi a posto non potrebbe mai vederla. Evidentemente gliel’ hanno detto. Forse la madre. Che stupida che sono.
-No…no, piccola, solo un po’ di fastidio.
-Invece a Vittorio gli fa male la gamba sinistra. E tra un’ oretta gliene fa quarantadue. Secondo me muore.
Poi il padre la prende per un braccio borbottando qualcosa e la riconduce verso il pullman, gettandomi un’ occhiata profondamente spaventata.

2. Attraverso lo specchio.

Davanti alla chiesa si è raccolta una piccola folla di uomini e donne in abito scuro che si scambiano saluti e poi entrano dentro in piccoli gruppi. Sarà la centesima telefonata che faccio a Vittorio. Dovrei smetterla, so bene che a quest’ ora stacca il cellulare. Le parole di quella ragazzina mi stringono ancora la gola. Che ne sa quella chi è Vittorio? So che non è niente, ma lui non risponde e questo non può che alimentare i miei brutti pensieri. Angelica mi paga il té e decide di andare nei bagni della vicina stazione a cambiarsi per la serata.
– Ma cambiati qui, nel bagno mio – le faccio.
– Sto stretta, ci sbatto i gomiti. Le dive, alla toilette, devono starci comode.
I cinque rumeni hanno finito tutte le mie bottigliette di Bacardi Breezer e sono passati a mettersi a giro una bottiglia di Levissima mezza piena di un vinaccio nero che non ho idea da dove provenga. Niente sghignazzi, né casino, né sguaiatezze, però. Paiono essere diventati più silenziosi, più tristi, quasi cupi.
Forse un po’ dispiaciuti perché Angelica li ha abbandonati anche stasera.
Il professore, mi fissa mezzo ubriaco e mi fa:
– Perché ce l’ hai tanto cò sta luna, che la guardi sempre?
– E, Roman è uguale al mio tatuaggio no?
– Ciai tatuaggio? Tatuaggi magia dei simboli. Fa vedere…
Roman mi guarda la luna e aggrotta le sopracciglia, quasi si stesse arrabbiando.
– Ma cosa ti sei fatta tatuare? Io pensavo tu eri più intelligente! E’ sbagliata! Chi te l’ ha fatta ti vuole male! Ascolta il vecchio Roman, che conosce la magia del corpo, le linee di Ley che congiungono i cuori della terra e ha studiato in galera a Budapest le 97 sorti lunari di Kitâb al-Tafhîm. Quella falce di luna è terribilmente sbagliata. Chi te l’ha fatta ti odia!
– E Roman non ti ci mette pure tu…ma che mi odia, me l’ ha fatta Pierre, quello me amava davvero, che ne sai tu.
– Lena, ascolta me. E’ una luna nella quinta casata. E’ la casata del possesso, della prigione senza fuga. Chiunque ti ha tatuato in quel modo, vuole possederti per sempre, vuole essere certo che tu non possa essere di nessun altro. Porterai grande sventura e dolore a chi amerai dopo di lui. Con quel tatuaggio, tu sei maledetta. Pregalo di modificare il disegno, o chiunque amerai vedrà la propria vita distrutta. Solo lui può farlo. Imploralo, fai qualunque cosa purchè accetti di modificarti questo orrendo disegno al più presto!
– Pierre è morto, Roman. Te l’ ho detto cento volte. Si è ucciso dopo che l’ ho lasciato, dopo che sono venuta in Italia.
Colgo con la coda dell’ occhio una ragazza appoggiarsi al bancone. E’ la madre della bambina cieca. Ha due corte trecce biondo scuro un po’ sfilacciate ed è vestita con una canottierina nera e con i suoi soliti pantaloni militari con anfibi. Ha delle belle braccette, robuste, forti ma snelle, non mascoline. Noto che le ascelle non sono del tutto depilate, ma non è sgradevole.
– Ciao.
– Ciao, cosa ti servo?
– Niente, grazie. A dir la verità sono qui per chiederti un favore.
Mi poggia sul bancone un cd nella sua custodia trasparente. Sul cd ci sono scritti dei numeri col pennarello.
-Cos’ è?
-Un film, un dvd – e mi sorride, un po’ nervosa – io mo stò di frettissima devo scapparmene. Tu, per favore, lo daresti a un tipo che viene a prenderselo tra cinque minuti? Non lo conosco ma mi ha detto che si sarebbe vestito tutto elegante. Ti prego, ti prego, ti prego, devo andare via di corsa, tanto mi conosci vengo sempre quà…
– No no mi spiace già ne è venuto uno una volta a fare queste cose mi ha detto che era un accendino e invece dentro c’era la droga
-Ma che droga – gli scappa una risata che pare sincera, ma inghiotte di continuo e questo mi insospettisce. Apre la custodia, toglie il dvd, mi fa guardare dentro e sotto la plastica. Effettivamente non c’ è nulla.
-Visto? Solo un dvd. Dai, su, dallo al tipo che viene adesso a chiedertelo. Poi domattina ripasso e se è tutto a posto ti porto un regalino e ti spiego tutto. Ciao bella!
E scatta indietro.
Io prendo il dvd, con questa data scritta sopra, e lo vado a mettere nel ripostiglio sul retro. Magari c’ è un qualche doppio fondo con un assegno o roba del genere. Ma no, non lo apro. Non mi voglio ficcare in qualche guaio da film d’ azione alla Morgan Freeman. Eppure due soldi in più non mi dispiacerebbero. Non so come dire a Vittorio che manco ‘sto mese posso pagargli l’ affitto. Pazienza, dovrà accontentarsi di nuovo dei miei sinceri pagamenti in natura.
Ritorno sul davanti del chiosco.
In chiesa c’ è un concerto. Sento ogni tanto un’ impennata di archi, il possente coro e un susseguirsi di ottoni che mi fanno pensare all’ Anello dei Nibelunghi di Wagner. Si, dovrebbe essere proprio qualcosa di Wagner.
I rumeni sono rimasti in due, davanti a una pila di Bacardi Breezer vuoti.
Chiamo e richiamo Vittorio, giusto per sentire la sua allegra voce che mi tranquillizza e mi fa fare una bella risata. Ancora staccato. Tra un po’ finisco e passo direttamente a casa sua. Intanto mi distraggo cercando con lo sguardo la mia drag queen preferita. Angelica è ai posti di combattimento. Le pajettes della gonnina brillano allo sfrecciare dei fari delle macchine. La maglia rossa di prima è stata sostituita da un top nero di fustagno Fornarina con un grosso e rosso cuore al centro, mentre le lunghe braccia sono infilate in altrettanto lunghi guanti neri Romeo Gigli Donna, un po’ laceri sulle nocche. Un bel paio di occhiali scuri Biagiotti, nonostante il sole stia ormai tramontando, le regalano un ultimo tocco di carisma.
Nell’ Hotel Caracas si vanno accendendo le luci di due-tre appartamenti. Il nero alla porta è intendo a parlare con Roman, indicando il proprio cellulare. Roman lo prende in mano e cerca di risolvergli il problema. Addio cellulare.
Si avvicina l’ ora di cena, devo iniziare a preparare i panini per quei pochi disperati che non hanno posto migliore dove andare a mangiare che alla nostra splendida sala ristorante all’ aperto. Menù a base di tramezzini tonno e salmonella oppure hamburger di vera carne di manzo ucciso da un contingente di escherichie coli armate di spada e stafilococco. Il tutto gustabile sotto a dei romantici quadretti in fotocopia che recitano: HACCP In base alla direttiva comunitaria 43/93/CEE “igiene dei prodotti alimentari”, si certifica che il presente esercizio…eccetera. Un gran bel falso d’ autore.
Tolgo il cd dei Portishead dallo stereo.
Lo rimetterò più tardi, quando sarò a casa e potrò godermeli a pieno.
-All mine…you have to be…
Tra un’ ora avrò finito e potrò spegnere in un bel sonno tutte le ansie di queste ultime ore.
L’ odore di quella mortadella umidiccia riempie in un attimo il mio spazio vitale. Ne taglio una fetta molto spessa, carnale. La poggio sulla metà inferiore di un panino al latte e m’ affretto a seppellirla schiaccianoci sopra l’ altra metà del panino. Addio. Cerco gli stuzzicadenti per i tramezzini quando mi cade l’ occhio sul mio cellulare poggiato sul lavandino, che lampeggia per un sms della mia coinquilina arrivato un’ ora fa.
-Oggi mi ha lasciato una mancia da paura! Ti vengo a prendere a mezzanotte ci facciamo due pinte all’ Irish Pub, offro io!
La mia coinquilina fa la puttana.
Si chiama Inka, è carina, piccola, con un visetto malizioso e una grande passione per il cinema giapponese e per Andy Warhol. Ha dei sorrisi stupendi, e li concede a tutti senza farsi pagare. Sorrisi simmetrici, perfetti, sinceri, luminosi, che contrastano con il suo abbigliamento, dai colori che oscillano tra il nero e il nerissimo. Sulla coscia, alla giusta altezza, ha il tatuaggio di un reggicalze in pizzo nero con fantasia di ragnatela. Belle manine e piedini sempre ben curati, piccoli piccoli. Riceve per appuntamento, ma poi decide dallo spioncino se aprire o meno. Niente gente volgare, sudata o aggressiva. Qualcuno fa un po’ di storie, qualcuno ne fa parecchie, ma alla fine si rassegnano tutti verso un altro numero di telefono ritagliato. E’ simpatica e le voglio bene. Spesso sono tanto tanto in pensiero per lei.
Rialzo gli occhi dal telefonino. Il sole è quasi del tutto scivolato giù e il cielo è di quel azzurro intenso venato rosso sangue che amo così tanto. Chissà se riuscirò a trovare un tatuatore così bravo da imprigionare i colori di quest’ ora così profondamente emotiva tra la mie pelle e l’ inchiostro.
Sul bancone ora sono poggiati i gomiti di un uomo in abito blu, con piccoli occhi porcini che si carezza la cravatta dai colori talmente orrendi e mischiati alla rinfusa che non sarebbe stata intonata con nulla che appartenga a questo mondo. Però immagino che potrebbe comunque essere considerato il tipo elegante. Meno male, mi tolgo dalle palle ‘sto dvd.
-Salve.
-Ciao, che desideri?
– Innanzitutto mi presento. Sono l’ assessore Rater. lei dovrebbe essere Lena la ragazza dell’ Albania.
-Si…no no, quale Albania, io non sono albanese sono di vicino Praga.
-Vabè, cosa si scalda…non mi sembra comunque che la sua lingua madre sia il fiorentino illustre, no? Dunque…mi ascolti. Sa, un pò mi imbarazza chiederglielo…
-E si, lo so, tu sei quello venuto per il film. Ora glielo vado a prende.
I suoi occhi si iniettano di sangue, e inizia a parlare a bassa voce, digrignando i denti.
– Quale film? Lei che ne sa del film? Di cosa parla? Cosa le ha detto Angelica?
– E no ma che ne so, pensavo che era venuto a prendere una cosa, il dvd, ma che ne so io si dia una calma, mi so sbaliata.
Visibilmente imbarazzato per quello sbotto, l’ assessore si ricompone.
-Mi scusi. Davvero, signorina, oggi ho avuto una giunta terribile. Abbia pazienza. Volevo chiederle una cosa. Mio padre viene sempre qui da lei a prendere il caffè. E’ quell’ uomo anziano che dipinge, ha sempre al collo una sciarpetta di flanella…
-Ah, si si, Leo. E’ bravo tuo padre è il più simpatico.
-Si, la ringrazio. Dunque, mio padre ogni martedì mi torna a casa con delle strane chiazze nere sotto al collo, cogli occhi gonfi e lucidi. Siccome mi ha detto che di solito è lei ad avere il turno di martedì qui al Terminal…
-Che pensi che lo avveleno?
-No signorina per carità…è solo che vorrei sapere cosa prende…senz’ altro qualcosa che gli fa allergia, i sintomi sono quelli…se continua, però, la questione può aggravarsi, potrebbe venirgli uno shock anafilattico, lei mi capisce, è un uomo anziano.
-Guarda, credimi, quì prende solo il vetrino, ma quando ariva quì ha già macchie, ce le ha da prima gliele vedo pure io. Il lunedì mai, il martedì pomeriggio tante macchie.
-E’ sicura, signorina? Sono molto preoccupato.
-Giuro, solo caffè. Il vetrino.
-Si, come no. Vetrino al vetriolo. Il caffè se lo prende pure a casa ma non gli è mai successo niente.
I piccoli occhi porcini dell’ assessore ora mi fissavano duri e stretti.
-Va bene, signorina, te lo dico con le cattive. Io non so che cazzo di porcherie ci mettete qui nelle vostre schifezze, guarda quei panini che schifo chissà con che cazzo li fate. Voi state ammazzando mio padre ma stai attenta che io a te e alle tue colleghe vi ributto a mare perchè io a mio padre gliel’ ho detto e ridetto di non venire in questo posto di merda, che finchè sta monnezza la servite agli altri albanesi come voi mi va pure bene ma a mio padre nessuno lo avvelena per poi farla franca, te l’ ho detto, stai attenta, un’ altra volta che lo vedo con quelle macchie ‘sto posto lo faccio radere al suolo e lo so che mio padre ci viene quà solo per le tue smorfiette, furba puttanella chissà che cazzo gli dici per farlo tornare sempre ma stai lontano da mio padre. Mi hai capito, lo capisci l’ italiano, lo capisci si o no?! Stai lontano da mio padre o per te sono cazzi.
-I cazzi sono per te, non mi piace come parli mo vattene o ti sculaccio pure io!
Mi fissa negli occhi per un lunghissimo istante. Fa come per darmi un ceffone ma poi si gira e va via bestemmiando.
Io scoppio in lacrime.
E’ buio.
Oggi è stata una giornata da incubo, Dio ti prego fa che finisca presto.
Al tavolo i rumeni non ci sono più.
Non c’ è più nessuno.
Nessuno.
È solo buio.
La chiesa ormai tace, ma sui suoi gradoni, alcuni ragazzi si stanno azzuffando, credo per scherzo, accanto ai loro motorini.
Angelica non c’ è più, è stata caricata.
L’ usciere nero ha chiuso le porte ed è rientrato dentro.
Nell’ Hotel Caracas c’ è una sola luce accesa, in un interno al cui balcone è affacciato un uomo, a petto nudo, che fuma una sigaretta e mi guarda.
Mi sembra di conoscerlo.
Nella sua camera la luce è rossa, di un rosso sessuale.
Il cellulare squilla, è la mia coinquilina.
Non le rispondo, sto troppo giù per potermi sintonizzare sulla sua gioia da ricca mancia.
Due ragazzi parcheggiano una Opel sfrigolando sull’ asfalto ed escono venendo verso il mio chiosco.
Manca ancora mezz’ ora ma non ce la faccio più. Servo ‘sti due e chiudo.
Uno è vestito con un abito bianco e una t-shirt rosa, il massimo del fighetto.
L’ altro ha un camicia rossa, pantaloni neri e cravatta sottile nera. Un po’ retrò.
Si avvicinano, sono due gemelli. Uno ha un braccio rotto, legato al collo da una fascia di seta rosa come la t-shirt. Non riesce a smettere di ridere. L’ altro gli da una scoppola per farlo stare zitto, rovesciandogli un ciuffo di capelli sul viso. Hanno un viso bello, armonico, labbra rosse sottili, agili sopracciglia espressive. Uno ha i capelli rossi cortissimi, mentre quello che ride ce li ha neri, lunghi fino alle orecchie.
-Ciao tu sei Lena vero?
-Si, chi sei voi?
-Siamo i documentaristi. Ci stappi due Du Demon? Ma prima il dvd, per favore.
Mi fermo a guardarlo e annuisco. Lui accenna subito un sorriso soddisfatto. Il gemello con i capelli neri riscoppia a ridere e mi mette il nervoso. Ok. Mi levo dalle scatole il dvd, gli do le birre, chiudo e scappo a casa.
Sgattaiolo sul retro e apro la porta del ripostiglio. Il dvd è poggiato sulla catasta di sedie. Lo prendo e lo guardo un attimo alla luce della luna. La gola mi si stringe di nuovo, e la coscienza prende a vacillarmi. Non avevo fatto caso che la data scritta sopra al dvd è quella della nascita di Vittorio.
Cosa sta succedendo?
Un istante dopo sento che qualcuno alza al massimo la radio sul davanti del mio chiosco. Ora gracchia, diffratta e a squarciagola, una vecchia e malinconica canzone d’ amore italiana:
-La bianca luna che ci ha fatto sognar / si é spenta come il sole d’or…

3.Dietro lo specchio.

Lena, quella ragazza albanese che lavora al Terminal, è davvero uguale a me. Buffo che in un momento come questo mi venga di pensare a lei.
Provo a sporgere il collo in avanti, lentamente, più lentamente che posso, per guardarmi le gambe. Non ci riesco. Rassegnato, ributto la testa indietro a riposare sul cuscinetto di pelle nera. Dio la gamba sinistra quanto mi fa male, sembra mi stia bruciando dall’ interno. Mi giro a destra e guardo oltre l’ ampia finestra, aperta su una splendida falce di luna calante. Tiro un sospiro. Ho ancora tanta di quella ketamina in corpo che non riesco ad avere una piena coscienza di quello che mi sta succedendo.
Mi sento quasi divertito, euforico.
Riesco, con uno sforzo maggiore, a ruotare un po’ il collo verso sinistra e vedo la vetrinetta con gli orecchini e i piercing. Quello con una miniatura della palla da 8 del biliardo è lo stesso che portava Lena come portachiavi. Ha la pelle bianca bianca come la mia e poi ha tanti nei, ed è alta come me. Bè io credo di essere più carino, perchè quella cià na faccia triste, non ride mai. Dice che è di vicino Praga, una cittadina con un nome strano che secondo me se lo inventa daccapo ogni volta. E’ pappa e ciccia con un vecchio rumeno. All’inizio ero certo fosse il suo magnaccia. Mi ha chiesto una stanza da prendere in affitto. Io ho una casa dove non vivo con due camere da affittare, di cui una già occupata da un’ altra mignotta. Quindi mi son detto: e vai così la buoncostume mi sbatte dentro ‘na volta per tutte. Però poi ho pensato: ma la buoncostume esiste davvero o esiste solo dei film di Totò? Ma si, prendiamone un’ altra. Sulle prime pensai che fosse stata una gran fortuna incontrarla, chi se l’ immaginava che potessi finire così? Stavo tanto bene con Alice, o almeno così mi sembrava. Non potevo farmi i cazzi miei? All’ inizio ero entusiasta, non solo perché Lena mi piaceva da pazzi, ma anche perché non trovavo un’ anima pia che mi si pigliasse quella diavolo di stanza. Era bella ampia pulita ma appena conoscevano il mestiere di Inka fuggivano via. Eppure paga sempre puntuale, lascia la casa in ordine e non ha mai avuto problemi con gli sbirri. Poi lei accetta solo tre clienti al giorno, è senza pappone e lavora non più di cinque giorni a settimana, perché il week-end le piace andare per pub, a ballare, a conoscere ragazzi tranquilli.
Ogni giorno lo dedica a un tipo di clientela. Se non sbaglio il mercoledì è per i sadomasochisti, il lunedì è per i ragazzetti alle prime armi e il martedì per gli anziani. Mi raccontava che ogni martedì veniva da lei persino il padre dell’ assessore Rater. Quel vecchietto si impasticcava di viagra come tanti suoi coetanei. Iniziò però a sviluppare una certa forma di allergia a ‘ste pasticche che gli facevano venire chiazze nere dappertutto. Il vecchio si ostina a prendersele e dinanzi a certe grosse mance che lascia, Inka non è capace di dire di noi, pure se secondo me prima o poi il nonno ci lascia le penne.
Nessuno voleva dividersi la casa con Inka, sono arrivato addirittura a chiedere solo 50 euro al mese per la stanza, finchè non ho conosciuto ‘sta tipa del Terminal. Le ho fatto intendere che la coinquilina era una mignotta ma lei non ha battuto ciglio. Era la conferma che era una mignotta anche lei e ho rialzato il prezzo a 150 euro. Quelle i soldi se li fanno, altrochè! Poi tutto è precipitato. Ho esagerato. L’ albanese non era la prima con la quale ho tradito Alice, ma stavolta avevo davvero esagerato. Alice ha scoperto la storia dopo avermi individuato un banale morso sull’ interno coscia. Avrei dato la colpa al mio cane, lei avrebbe scelto di crederci per non soffrire. Ma io ormai, di Lena mi ero innamorato, e a Alice ho spifferato tutto. Dell’ albanese e di tutte le altre. Mi aspettavo disperazione, botte, rabbia, lacrime, anche gesti estremi, pericolosi.
Niente di tutto questo.
Si ammalò in silenzio, lasciandosi morire nel dolore, giorno dopo giorno, senza dire una parola, senza accusarmi di nulla.
Senza farmela pagare.
Bè, ora però credo di aver pagato a dovere, voi che dite? Anche se in fondo l’ ambiente qui è carino. E’ lo studio di piercing di Dorothy, sua sorella, all’ interno di un piccolo centro di estetica. Roba new age, ti fanno i massaggio con i petali, con i sassolini, ti fanno tatuaggi all’ hennè, piercing, maschere di bellezza, cura del viso, lampade, depilazione e altre frocerie. Sono ben consapevole di meritare il suo odio. E’ giusto che sua sorella voglia vendicarsi di me. Mi meraviglierei del contrario. Ma si, perché in fin dei conti Alice consono mai stato capace di amarla veramente, diciamoci la verità. E non c’ è bisogno di consultare un manuale di Alberoni per capire che di lei amavo solo il contesto, la sicurezza sentimentale e le tettarelle.
Vabè, comunque non voglio togliere il mestiere alla De Filippi. Alice l’ ho solo fatta soffrire, l’ ho fatta sentire inadeguata, incompleta, l’ ho fatta sentire a volte infantile a volte vecchia, solo perché alla fine volevo che sbottasse, che mi mandasse a ‘fanculo, perché sapevo di meritarmelo, sapevo di meritarmi il suo odio, ma questo non arrivava. Non arrivava, il suo odio non è arrivato neanche quando stava morendo. Cazzo, non è arrivato mai, ma io lo sentivo così necessario, il suo fisiologico odio per me. Alice era di un’ altra razza, che cazzo ne potevo capire io che continuo a ragionare con l’ uccello persino adesso.
Alice si è lasciata morire nel proprio dolore, ma la invece, si è mostrata decisamente meno remissiva.
Eppure, finchè la keta e tutto il resto che mi ha fatto ingoiare galoppa ancora nelle mie vene, il dolore rimane sopportabile.
E comunque, se avessi saputo che Dorothy mi avrebbe evirato, un’ ultima scopatina con l’ albanese me la sarei fatta. The last fuck of my life. Poteva essere il titolo di un best seller. O di un film porno. Il lavoretto l’ ha fatto bene, questo studio dei piercing è davvero ben attrezzato, e poi ho notato la sua amorevole delicatezza nel mettermi i punti e nel disinfettarmi ben bene.
Eppure continuo ad essere euforico.
Mi sembra solo un colorato episodio di Grattachecca e Fichetto.
Il portone si apre e rimbomba per il corridoio un marziale incedere di anfibi. Come scorgo le due treccine bionde, comprendo che Dorothy è tornata.
-A posto, tesoro. Ho consegnato il dvd. Ne ho fatto una copia anche per te. So che sei un bel po’ vanitoso, magari ti farà piacere rivederti mentre ti privo una volta per tutte di quella misera virilità che hai gestito così male per tutta la tua stupida vita da porco egoista.
-Anch’ io ti amo, Dorothy. Posso permettermi di chiederti chi è che si starà sollazzando con le riprese del mio piacevolissimo intervento?
-I documentaristi. Non so chi siano, non so quanti siano né di dove siano. Sono in contatto con loro da un anno e mezzo. Mi pagano fior di euri per farsi fare dei dvd con le riprese in formato avi dei piercing che metto. Ogni singolo piercing. Ne hanno un archivio, dividono i soggetti per età. Un piercing in certi punti mi viene a fruttare dieci volte un banale piercing all’ ombelico, ovviamente.
-Ovviamente. Altrettanto ovviamente il lavoretto che hai fatto a me te l’ avranno pagato fior di euri, se ho ben capito.
-Così dovrebbe essere. Io lascio il dvd in qualche posto, uno di loro va a prenderlo poco dopo e entro ventiquattr’ore, se tutto è andato liscio, sul mio conto arriva l’ accredito. Domani gli porto quello che giriamo tra un po’. Ma non credere che ti stia usando per farmi la vacanza a Cuba. Sai quanti debiti abbiamo contratto io e mia madre per pagare tutte le degenze, le analisi, le medicine che speravamo potessero salvare mia sorella? E poi dobbiamo ancora saldare il conto delle pompe funebri, pagare il prete per la messa, l’ ufficio cimiteri per l’ affitto del loculo, infine il bollettino per le luci mortuarie. Devi pagare pure da morto, in questo sistema di merda. Tutto per arricchire quattro politici corrotti che predicano la castità e poi vanno a trans. Vuoi un altro po’ di keta?
-No, grazie, tesoro. Magari tra un po’.
-Come vuoi. Fammi dare un’ occhiata…si, qui sotto va tutto bene. A casa dovrai mettere il Gentalyn cinque volte al giorno e un’ innaffiata di Betadine H prima di andare a nanna. Du pasticche di Eritrocina al giorno per una settimana, per evitare drammatiche infezioni. Poi torna da me a farti vedere. Ora che ho finito il dovere, può iniziare il piacere. Oggi in studio non verrà nessuno. Abbiamo tutto il tempo che vogliamo. Ho altri sette grammi di keta, quarantadue piercing diversi e una gran voglia di esercitarmi su di te. Ago sterilizzato come si deve, naturalmente: sono una professionista. Aspetta che accendo la videocamera. Ecco. Perfetto. Ti infilerò piercing dove nessuno ha mai osato infilarne. Ti farò diventare una star. Apparirai su tutte le riviste di body art accanto a Fakir Musafar e agli altri grandi. Poi, quando abbiamo finito, ti slegherò e te ne potrai andare.
Keta o non keta, il terrore mi aveva raggiunto.
-Dorothy, tesoro, mi fa piacere sapere che passeremo una piacevole serata assieme. Noto con una punta di stupore che non hai preso in considerazione la remotissima possibilità che, una volta libero, oltre che fare due ricamini sul tuo bel visetto d’ angelo biondo ti denuncerò e ti farò marcire in galera per il resto dei tuoi giorni.
-Tesoro mio, sai di meritarti ampiamente tutto quello che ti ho fatto e che ti sto per fare. Hai ucciso una persona solo perché sei un porco. Non esiste abbastanza ketamina al mondo per farti sopravvivere a lungo al rimorso. Alice è morta per causa tua. Non ce l’ avresti mai fatta a sopportare il senso di colpa, se non dopo una efficace punizione che, in ogni caso, tu non avresti mai avuto il fegato di infliggerti da solo. Iniziamo. Rec. Ecco, per sicurezza alzo un po’ la musica.
-La bianca luna che ci ha fatto sognar…
Chissà, magari ha ragione lei.
Purtroppo non ho il tempo di rifletterci a dovere perché, un’ istante dopo che finisce di parlare,
la testa inizia finalmente a vorticarmi, e un provvidenziale svenimento
mi concede un po’ di riposo
da questo
incubo.